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La storia, i punti d'interesse turistico, le sedi civiche e gli istituti religiosi.

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Fondazione “Don Carlo Ferrandi”

La Fondazione "Don Carlo Ferrandi" è una RSA che ha come scopo istituzionale l’assistenza sociosanitaria in forma residenziale.
 
Per maggiori informazioni consultare il sito www.asl.pavia.it
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Stradario

Cerca e visualizza tutte le vie, le piazze e le località del comune di Breme.

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Monumenti

In questa pagina è possibile visulizzare i monumenti dislocati nel territorio comunale.

Obelisco in ricordo di San Carlo Borromeo (XVII sec.)

Obelisco eretto a testimonianza del passaggio di San Carlo Borromeo al monastero di Breme avvenuto nell’anno 1579. Nel viaggio di ritorno per la visita alle chiese di Valmacca e Frassineto Po, appartenenti alla vasta Diocesi di Milano, Carlo Borromeo rimase colpito dall’imponenza dell’abbazia e decise di fermarsi per una breve sosta.
L’accoglienza dei monaci e della comunità fu talmente calorosa che Carlo Borromeo si fermò anche per la recita del Santo Rosario. La colonna fu innalzata nel 1623 e da allora ogni giorno, al tramonto, un rintocco di campana viene dato a ricordo del Suo passaggio. L’obelisco nel 1623 fu posizionato nella piazza principale del paese di fronte al Corpo di Guardia. Nel 1877 fu spostato al centro di Piazza Marconi ed in seguito, nel 1923, fu collocato ai piedi della Piazza d’armi, oggi Piazza della Chiesa.

 

Monumento ai caduti

Monumento dedicato ai caduti per la patria nella Guerra del 1915 – 18.
Nel 1924 fu realizzato nella Piazza G. Marconi poi, negli anni 60, è stato spostato nella Piazza antistante l’Abbazia di San Pietro, oggi sede del Municipio.

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La chiesa di Santa Maria di Pollicino

Oratorio campestre situato a circa 2 km dal paese sulla strada per Candia Lomellina. La chiesetta, sicuramente preesistente alla fondazione dell’abbazia, era una pertinenza della «curtis» di Pollicino o Polliciano (l’etimologia, per alcuni studiosi, è derivata da «Padi limus», ossia palude del Po). La curtis, identificabile con l’attuale cascina Rinalda, era uno dei possedimenti donati da Adalberto d’Ivrea ai monaci di Novalesa.

Lo stile romanico è stato più volte modificato dai numerosi restauri e rimaneggiamenti subiti nel corso dei secoli. Sappiamo, dalla relazione di una visita pastorale, che nel 1576 aveva ancora un «portico» sulla facciata, l’altare di serizzo e le pareti interne affrescate, particolarmente l’abside; questi affreschi, oggi completamente scomparsi, erano già sbiaditi all’epoca della visita, perché il visitatore apostolico ordinò che «fossero rinnovate le pitture».
 
 
Subì un nuovo restauro radicale nel 1897 e un ultimo nel 1958, quando fu rifatto il soffitto a capriate, il selciato esterno e l’altare. Al centro dell’abside è collocata la statua lignea della madonna, seduta con il bambino in braccio, opera di un anonimo scultore del ‘400. Attualmente la chiesa è di proprietà della famiglia Tagliabue, visitabile su richiesta.
 
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La chiesa di San Sebastiano

Costruita nei primi anni del XVII secolo, era originariamente dedicata ai Santi Rocco e Sebastiano ed era sede di una delle numerose confraternite esistenti allora in paese. Nell’interno, costituito da un’unica navata, è pregevole l’altare in marmi policromi intarsiati, nel tipico stile del barocchetto piemontese. Sull’altare un crocifisso ligneo sec. XVII, sulla destra lo stendardo della Confraternita, con dipinta la scena del martirio di S. Sebastiano.

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La Chiesa Parrocchiale

Dedicata alla B.V. Assunta, è anteriore alla fondazione dell’abbazia. Il marchese Adalberto d’Ivrea infatti, nel suo atto di donazione ai monaci di Novalesa, parla delle «corti di Breme e di Pollicino», e il termine «curtis» nell’alto medioevo indica un possedimento fondiario autosufficiente, dotato di mulino, forno, cantina, officina e, naturalmente, di una chiesa. Il fatto poi che alla chiesa fosse annesso un battistero testimonia l’importanza che Breme aveva nella zona, come punto di riferimento tra i paesi limitrofi.

La costruzione della chiesa risale ai sec. X - XI, ma vi si scorgono tracce murarie di epoche precedenti. Lo stile è tipicamente romanico; la facciata, originariamente «a capanna», venne modificata nel XIII sec. con il rialzo della navata centrale e forse l’aggiunta delle due navate laterali; alla stessa epoca risale anche il bel campanile quadrato, situato posteriormente sul lato sinistro della chiesa. La muratura è principalmente in laterizio, con mattoni di diverse dimensioni alternati a ciottoli di fiume e sistemati in modo irregolare, tanto da far ritenere che in origine la facciata fosse intonacata e, forse, affrescata. Le cappelle laterali, che ampliano il volume complessivo dell’edificio, sono state aggiunte nel secolo scorso. Il sottogronda della navata principale e delle navate laterali è ornato da un motivo in mattoni «a dente di sega», tipico di molte costruzioni romaniche.


L’interno, molto rimaneggiato, è a tre navate, con abside semicircolare e senza transetto, come si nota spesso nelle chiese romaniche di area lombarda. I pilastri che sostengono la navata centrale, in laterizio e a sezione quadrata, sono affiancati e rinforzati da semicolonne di marmo (aggiunte nel 1933), come pure le arcate tra i pilastri. Il soffitto a cassettoni, dovuto anch’esso ai restauri del 1933, sostituì la bassa volta, neanche quella originaria, costruita nel secolo scorso.
Sempre ai restauri del 1933, dovuti al prevosto don Carlo Ferrandi, si deve la sistemazione attuale del presbiterio: fu costruito l’arco che lo separa dalla navata, sul quale sono affrescate figure di santi che fanno corona intorno alla Vergine Assunta; fu costruito il nuovo altare maggiore, sovrastato da un alto ciborio; sull’altare un grande crocifisso sostituì la pala d’altare (di autore anonimo, raffigurante la discesa dello Spirito Santo sopra la Vergine e gli Apostoli, si trova attualmente in sagrestia).

 

Il battistero

Situato sul lato destro della chiesa, è un gioiello dell’architettura romanica paleocristiana.
La struttura esterna è poligonale, con muratura in laterizi misti a ciottoli di fiume, affiorante qua e là dall’intonaco sgretolato. La volta è spaccata da un lanternino, di epoca posteriore. Sul lato est è situata una piccola abside, ora tutt’uno con la chiesa, che doveva forse costituire il nartece d’ingresso al battistero.
 
 
L’interno, ora adattato a cappella di S. Barnaba, è stato oggetto di importanti restauri eseguiti dal prevosto don Giovanni Battista Amiotti negli anni 1896-98 (e, pare, suggeriti dall’allora vescovo mons. Merizzi).
La pavimentazione fu rialzata in modo da coprire la vasca battesimale (a immersione, come in tutti i battisteri paleocristiani) e fu sfondata una parete, così da metterlo in comunicazione con la chiesa; a tutto l’insieme, poi, venne conferita un’intonazione neoclassica.
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L'abbazia di Novalesa

L'abbazia dei Santi Pietro e Andrea, anche conosciuta come abbazia di Novalesa, è un'antica abbazia benedettina fondata nell'VIII secolo e situata nel comune di Novalesa, in valle di Susa. Scopri di più sul sito web dell'abbazia.

LE ORIGINI
All’alba del secolo VIII la regione presso il Moncenisio, con la Valle di Susa e la Valle Maurienne, è soggetta al Regno dei Franchi, in una posizione strategica importante perché zona di confine con il Regno Longobardo, che giunge sino alle celebri Chiuse. All’epoca governa la regione il nobile franco Abbone. Il 30 gennaio 726 egli fonda su terre di sua proprietà un monastero che intitola ai santi Pietro e Andrea, con il consenso del vescovo di st. Jean de Maurienne e di Susa. Vi nomina come primo abate un certo Godone. Come contropartita egli chiede che i monaci preghino per lui e per la prosperità del Regno Franco. La posizione stessa geografica offre l’occasione per esercitare una attività che si continuerà per secoli. Trovandosi sulla importante via di transito, il colle del Moncenisio, i monaci organizzano una casa di accoglienza per i pellegrini, e viandanti. E’ molto verosimile che abbiamo anche questo scopo le donazioni e privilegi che vengono concessi dai re carolingi.
Contemporaneamente la piccola valle Cenischia, con i tre villaggi che essa contiene, Venaus, Novalesa, Ferrera, diviene una unità non solo nel campo religioso, ma anche in quello civile: l’abate vi esercita la giurisdizione ecclesiastica e civile. Intorno all’abate ruota la popolazione della valle, che sia civilmente che religiosamente, dipende dall’abate.

SECOLO IX
La comunità si mantiene nell’orbita della vita religiosa franca. Deve accettare la riforma voluta da Ludovico il Pio con il capitolare monastico dell’817 e che affidata a Benedetto d’Aniane, mirava ad imporre dappertutto in maniera esclusiva la regola benedettina. La figura che domina il secolo è S. Eldrado che fu abate dal 825 al 845 circa di lui scarse sono le notizie biografiche certe. Il Santo ha sollecitudine per i poveri e i bisognosi del luogo, di cui rimane l’eco nelle leggende, simpatiche e ingenue, che ancora oggi si tramandano. Durante il regno di Ludovico il Pio ad Eldrado sono donati l’ospizio del Moncenisio e il priorato di Pagno (presso Saluzzo).

SECOLO X
All’inizio del secolo X tutto fa prevedere un futuro roseo. Ma un avvenimento viene a sconvolgere ogni progetto. Verso il 906 una schiera di saraceni, spingendosi dal Frassineto (presso l’attuale Saint-Tropez) punta sull’abbazia di Novalesa. Avuto sentore dell’imminente pericolo, l’abate Donniverto con la maggior parte dei monaci si mette in salvo a Torino, presso la chiesa dei SS. Andrea e Clemente, (l’attuale Consolata), portando con sè gli oggetti più indispensabili e i codici della biblioteca. I Saraceni saccheggiano, appiccano il fuoco agli edifici e fanno alcune vittime, in seguito venerate come martiri (come S. Giusto e Flaviano).

Fortunatamente i profughi trovano il favore di Adalberto, marchese di Ivrea che, qualche anno dopo offre loro le corti di Breme e di Policino in Lomellina. Qui, probabilmente durante il governo dell’abate Belegrino (955-972) si trasferisce la maggior parte della comunità. Passata la burrasca, anche il monastero di Novalesa è riaperto, ma solo come casa dipendente da Breme

Parte di ciò che rimane dell'antico Monastero di Breme, ora adibito a Municipio di Breme

 

SECOLO XI
Su questo periodo getta un po' di luce il celebre “Chronicon novalicense”- anno 1060 (conservato all'Archivio di Stato di Torino)- composto verso la metà del secolo da un monaco anonimo. Già fin dai primi anni della ripresa novalicense, molto attivo è lo scriptorium, la cui esistenza è documentata da numerosi codici conservati oggi in diverse biblioteche d’Europa. Ricordiamo, in particolare la stupenda “Biblia magna”, oggi nell’archivio di stato di Torino.
 

SECOLO XII
In questo secolo il monastero di Novalesa non appare che una delle più importanti case soggette all’abbazia di Breme, la quale attraversava allora uno dei suoi più splendidi periodi. Tra l’altro il suo abate esercita giurisdizione ecclesiastica su parrocchie, chiese e borgate e sul clero locale. Tali poteri sono stati riconosciuti dal papa cistercense Eugenio III con una solenne bolla del 1151.

 

SECOLO XIII
I rapporti tra il priorato di Novalesa e l’abbazia di Breme sono tutt’altro che pacifici. La prima aspira a rendersi indipendente, giustificando la sua pretesa con l’antichità delle sue origini e con il suo passato glorioso. Il priore continua a prestare giuramento di obbedienza all’abate di Breme; ma i tentativi di rendersene indipendente continuano, approfittando specialmente dei momenti di crisi. Ricordiamo che proprio allora almeno due volte, nel 1213 e nel 1222 l’abbazia di Breme è devastata dai Milanesi. Tra i monaci di Novalesa e quelli di Breme si giunge perfino ad un lungo processo; i primi dovettero accontentarsi per il momento soltanto dell’autonomia amministrativa.

 

SECOLO XIV
L’abbazia di Breme già all’inizio del secolo è in decadenza; ma anche il priorato di Novalesa è in crisi. Esiguo è il numero dei monaci; rilassata è l’osservanza regolare, particolarmente circa il voto di povertà; ridotta ad un basso livello è la cultura; critica la situazione economica per l’aumento dei debiti, per le frequenti liti giudiziarie e per la voracità degli usurai che dissanguano le già esauste finanze.

 

SECOLO XV
La situazione non migliora, nemmeno durante il lungo governo del priore Vincenzo Aschieri (1399-1452). Anzi, la Santa Sede emana un decreto in forza del quale il nostro priorato viene unito all’abbazia di S. Michele alla Chiusa. Un ricorso dei monaci novalicensi del 21 luglio 1451 impedisce in extremis l’attuazione del progetto. Tre anni dopo il monastero è affidato dai Savoia in amministrazione perpetua al francescano Ubertino Borelli, confessore di Ludovico di Savoia. Così, di fatto, l'abbazia cade in commenda. Tale istituto giuridico è nato per garantire una sana amministrazione delle finanze delle abbazie; ma i “commendatari”, che non sono monaci, dimenticano il loro originario incarico, facendo i propri interessi e intromettendosi negli affari interni della comunità. Nel 1479 la nostra abbazia è affidata in commenda a Giorgio Provana dei signori di Leinì. Da quell’anno il monastero diviene feudo dei Provana che si trasmetteranno il titolo di “priore” sino all’inizio del secolo XVII quando con Antonio Provana (+1640) sarà ripristinato l’antico titolo di “abate”.

SECOLO XVI
Novalesa rimane chiusa nel suo tradizionale isolamento, che la rende fragile e incapace di liberarsi dalla commenda e dalle ingerenze dei Savoia. Non sorprende, quindi, che il monastero sia coinvolto, almeno indirettamente, nelle vicende politiche del tempo e, in particolare, nelle conseguenze delle guerre tra Francia e Spagna, quando il Piemonte diviene teatro di scontri armati tra gli eserciti nemici. E’ dopo una vittoria dei francesi, che il Luogotenente Regio depone dall’ufficio di commendatario di Novalesa Carlo Provana, sostituendolo con un certo Gregorio di Taddei; la tregua, stipulata tra Spagna e Francia nel 1538 riporta alla nostra abbazia l’antico titolare. Proprio alla fine del secolo, nel 1599, il monastero ottiene finalmente dal papa Clemente VIII il ripristino del titolo di “abbazia”, titolo di cui si orneranno solo i commendatari; alla guida diretta dei monaci continuerà un loro confratello con il titolo di “priore”.

 

SECOLO XVII
Nella prima metà del secolo la comunità è agli estremi; nel 1638 i monaci sono ridotti a tre. Della fine prossima della comunità era preoccupato lo stesso commendatario, Antonio Provana, arcivescovo di Torino, il quale nel 1637 intavola trattative con i Certosini; ma il progetto naufraga, probabilmente per la morte del Provana (+1640). Il nuovo commendatario, Filiberto Maurizio Provana (1640-1684) prende contatto con i Foglianti, cioè con i Cistercensi Riformati di S. Bernardo. Nel 1646 essi giungono a Novalesa, dove è rimasto un solo monaco anziano.

 

SECOLO XVIII
All'abbazia continuano ad esistere due realtà contraddittorie: da una parte la comunità dei “Foglianti, dediti alla preghiera, alla penitenza e al lavoro,  sotto la guida di un priore; dall’altra l’abbazia in commenda, ridotta a pingue beneficio ecclesiastico, assegnato dai Duchi di Savoia a propri amici. Ma nel l798 il governo provvisorio, sorto dopo l’invasione napoleonica, decreta la soppressione della commenda e della comunità monastica. Gli edifici sono incamerati dallo Stato; i monaci sono costretti a cercare rifugio altrove.

SECOLO XIX
Il nuovo secolo si presenta con alcune novità fondamentali. Napoleone realizza la nuova arteria stradale che mette in comunicazione Susa con Lanslebourg. Per provvedere alle truppe in transito, ingrandisce l’antico ospizio. Per la gestione di esso è proposto a Napoleone il nome di don Antonio Gabet, già abate del soppresso monastero trappista di Tamié in Savoia con altri monaci. Nel 1803 il governo francese affida al Gabet l’ospizio. Dopo la scomparsa di Napoleone, nel 1818, i monaci scendono alla Novalesa, che è stata donata loro dallo stesso Napoleone. Affluiscono i postulanti, la comunità cresce numericamente. Ma si ha di nuovo la tormenta. Il 29 maggio 1855 il Governo Sabaudo promulga la legge di soppressione per tutti i monasteri del Regno. La legge è attuata per Novalesa la mattina del 25 ottobre 1856. Espulsi i monaci, gli edifici sono messi all’asta e acquistati da un medico che ne fa un albergo per cure idroterapiche. Successivamente diventano residenza estiva del Convitto Nazionale Umberto I di Torino.

 

SECOLO XX
Nel 1972 il complesso abbaziale, ormai fatiscente, è acquistato dalla Provincia di Torino e affidato nuovamente ai monaci. Questi provenienti da S. Giorgio di Venezia, vi mettono piede il 14 luglio del 1973. Tra mille difficoltà torna a rifiorire la vita di un tempo. Come una volta le campane scandiscono le ore di preghiera, di lavoro, di lectio divina, nel servizio “a Cristo, unico unico Signore”.

 

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Il "Chronicon Novalicense"

Le vicende delle abbazie di Novalesa e di Breme sono narrate in un testo tra i più celebri della letteratura storiografica medievale, il «Chronicon Novaliciense», prossimo per valore al «Chronicon Salernitanum» e alla «Historia Langobardorum» di Paolo Diacono. La Cronaca fu scritta intorno alla metà del XI sec. da un monaco anonimo, il cui intento era di celebrare la grandezza dell’abbazia di Novalesa proprio nel momento in cui, restaurata da Gezone, si appresta a risorgere dall’oblio in cui era caduta.

L’anonimo cronista vive a Breme, probabilmente è nativo di questi luoghi, come lascia trasparire da alcuni accenni autobiografici; a Novalesa c’era stato una prima volta, giovinetto, in compagnia di Brunigo, il monaco architetto che, oltre a restaurare l’abbazia, aveva costruito il campanile della Consolata a Torino.

Le origini della Novalesa si perdono, nel racconto del cronista, in un passato favoloso: nella fuga degli apostoli da Roma e dall’ira di Nerone, e poi nel regno del goto Teodorico, macchiato del sangue di Simmaco e Boezio. Si intrecciano così nella cronaca fatti storici e racconti leggendari, la guerra tra Franchi e Longobardi, le vicende di Algiso, figlio del re Desiderio, la leggenda di Valtario, il guerriero protagonista dell’omonima chanson de geste, che si ritira in convento (a Novalesa) per espiare le sue colpe. Un vasto e variato affresco storico, dunque, realizzato più attraverso colpi di colore che non con la precisione del disegno; ma ciò che rende la Cronaca un prodotto fra i più stimolanti della letteratura medievale è il gusto per la favola e la leggenda: «il loro straripare, anzi, va ora a costituire l’intero tessuto della narrazione, ora a variare la tonalità di un fatto storicamente certo.

Sono racconti o spezzoni di racconti appresi dal popolo, dai cantastorie, dalla voce dei potenti, da testi circolanti nei monasteri, [...] o ancora episodi che il cronista trae dalla memoria della comunità, dalla sua memoria familiare, lievi sfrangiature biografiche nella sorvegliata impersonalità del racconto» (dalla Introduzione di G. C. Alessio all’edizione della Cronaca di Novalesa pubblicata da Einaudi nella collana «I Millenni», Torino, 1982).

 
 
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L'abbazia di San Pietro

La storia dell’abbazia benedettina di Breme è legata indissolubilmente a quella della celebre abbazia di Novalesa, in Val di Susa, fondata nel 726 sulla Via Francigena: una delle più celebri d’Europa, centro di vita religiosa e spirituale e punto di riferimento della cultura del tempo.

All’inizio del X sec., in seguito alle scorrerie dei pirati saraceni, i monaci fuggirono a Torino, portando con loro gli arredi sacri, gli oggetti preziosi e una parte della biblioteca. Alloggiati in un primo tempo nel monastero dei SS. Andrea e Clemente a Torino, i frati fuggiaschi furono presi sotto la protezione del marchese d’Ivrea Adalberto (padre del futuro re d’Italia Berengario II), che donò loro la chiesa di S. Andrea in Torino (oggi Santuario della Consolata) e le «curtis» di Breme e di Pollicino (corrispondente all’attuale cascina Rinalda), oltre a numerosi territori sparsi per il Piemonte, la Liguria e la Lombardia occidentale; la donazione è confermata e ratificata pochi mesi dopo, il 24 luglio 929, dal re Ugo nella sua sede di Pavia.

Breme, che sorgeva su un’altura detta «Costa Rubea» alla confluenza tra Po e Sesia, era in una posizione ottimale per i monaci della Novalesa: il luogo, fertile e rigoglioso, era anche in una posizione strategicamente sicura e inoltre a breve distanza dalla sede imperiale di Pavia. Qui Donniverto, ultimo abate di Novalesa e primo di Breme, edificò un monastero che fu intitolato a S. Pietro, come quello da poco abbandonato.

Intorno alla metà del X sec. l’edificio doveva essere pressoché terminato; a quest’epoca risale anche la costruzione della cripta tuttora esistente. Il fatto che la comunità benedettina si fosse trasferita a Breme non comportò l’abbandono del sito originario dell’abbazia; una volta cessato il pericolo saraceno, l’abate Gezone si preoccupò di restaurare gli edifici della Novalesa e ottenne dall’imperatore Ottone III un diploma, redatto nel 998, in cui si confermavano all’abate di Breme tutte le donazioni più recenti e tutti i possedimenti di pertinenza dell’antica abbazia. Da allora Breme e Novalesa furono un organismo unico, tanto che gli abati si nominavano «abate di Novalesa e di Breme».

Come già detto, dal punto di vista giurisdizionale l’abbazia di Breme fu «libera» in quanto svincolata dal potere dei vescovi e dalla giurisdizione delle diocesi, soggetta unicamente al Papa e all’Imperatore, e fu toccata solo marginalmente dalle grandi riforme monastiche del tempo, quella cluniacense prima e quella cistercense poi. Diversi papi, con una serie di bolle pontificie, ribadirono questa «protezione» accordata all’abbazia di Breme: Benedetto VIII (1014), Innocenzo II (tra il 1130 e il 1143), Eugenio III (1151); e diversi imperatori la «sovranità» dell’abbazia: oltre al citato diploma di Ottone III, ricordiamo quelli di Corrado II (1026), Enrico III (1048) e Ottone IV (1210).

Il declino dell’abbazia iniziò nel 1306, quando Breme fu assediata e presa dalle milizie di Galeazzo Visconti, e proseguì nel tempo per la decisione dei duchi di Milano di impiantarvi fortificazioni a difesa della sponda lombarda del Po, così da trasformare Breme in un presidio militare e quindi determinarne il degrado quale centro di vita civile e religiosa.
Nel 1542 i monaci benedettini si trasferirono nell’abbazia di S. Alberto di Butrio e al loro posto si insediarono gli Olivetani , altro ramo della grande famiglia benedettina; in conseguenza del loro arrivo, fu soppresso il titolo di abate e i beni dell’abbazia furono uniti a quelli di S. Bartolomeo della Strada di Pavia. Agli Olivetani dobbiamo la costruzione dell’edificio attuale e dell’artistico campanile, avvenuta alla metà del XVI sec. Il monastero venne poi radicalmente restaurato dopo la distruzione della fortezza, intorno al 1650.
Il declino era però inarrestabile: il colpo di grazia fu dato dal Re di Sardegna Vittorio Emanuele I che nel 1784 decretò la soppressione dell’abbazia e l’incameramento dei suoi beni da parte dello stato. Sotto il Regno italico di Napoleone I fu infine abbattuta la chiesa abbaziale, già diroccata e pericolante.

Arte e Architettura

L’edificio attuale è quello costruito dagli Olivetani intorno alla metà del ‘500 e radicalmente restaurato un secolo dopo, in seguito allo smantellamento delle fortificazioni sabaude. Il corpo principale è quello disposto attorno all’attuale cortile delle scuole, l’antico chiostro del monastero, ma facevano parte del complesso abbaziale anche i fabbricati del cortile adiacente, al n. 11 di Via Abazia S. Pietro, e la casa posta al n. 21, legata all’edificio principale da un arco sul quale si nota, molto sbiadito, l’emblema dei frati Olivetani.

Completava il monastero il giardino terrazzato, situato a sud dell’edificio principale e chiuso da un muro di cinta.
La chiesa abbaziale era situata sul lato nord del chiostro ed era «orientata», cioè rivolta verso Oriente, verso Gerusalemme, come tutte le chiese antiche. La facciata si trovava dove oggi c’è il cancello d’ingresso al chiostro e il presbiterio, posto sopra la cripta, era rialzato rispetto al piano della navata, come spesso si nota nelle chiese romaniche. Di essa non rimane più nulla, salvo alcuni archetti decorativi di stucco sul muro nord.

È difficile ricostruire, sulla base di quanto è rimasto, la disposizione dei locali all’interno del monastero; con ogni probabilità, al piano terreno erano situati i locali comuni: la sala capitolare, il refettorio, lo scriptorium, l’erboristeria-farmacia, mentre al primo piano trovavano posto l’appartamento dell’abate e le celle dei frati. Si è invece ben conservata la cripta della chiesa abbaziale, probabilmente tra i primi edifici costruiti e dunque databile intorno all’anno 1000.

Vi si accede da un’apertura posta sul lato posteriore del fabbricato, scendendo due brevi rampe di scale ricavate, nel ‘600 nello spessore del muro. Vi era un secondo accesso, oggi murato, dalla navata sinistra della chiesa, che è attualmente visibile (ma non visitabile, in quanto situato in un’abitazione privata) nel cortile al n. 11.  Lunga poco più di 11 metri e larga 6, la cripta è orientata come tutte le chiese preromaniche e romaniche ed è divisa in tre navatelle da quattro colonne cilindriche in pietra e da quattro pilastri in laterizio, di epoca più tarda.

Il muro che la chiude sul lato occidentale, verso il chiostro, le quattro colonne in mattoni e parte delle volte soprastanti presentano una muratura in laterizio di mediocre fattura tarda settecentesca. Probabilmente, in antico, la cripta continuava per altre tre campate, come vediamo in altre cripte consimili (S. Maria di Cavour e Testona, per esempio). Tutto il resto della muratura perimetrale interna è in laterizio frammisto a ciottolo di fiume e il pavimento si presenta ora acciottolato. Le quattro colonne in pietra, di cui una è in marmo bianco venato, potrebbero provenire, come pezzi di recupero, da edifici di epoca romana dalla vicina Lomello.

Nell’ala ovest, l’attuale municipio, che costituiva l’ingresso al monastero, vi erano dei locali «di rappresentanza», mentre la casa a fianco, al n. 21, isolata rispetto al corpo principale del monastero, era adibita a foresteria. La parte rustica, con i servizi legati alle necessità del monastero (mulino, forno, officina, granai, stalle, ecc.), era probabilmente situata nel gruppo di fabbricati a nord della chiesa, nel cortile al n. 11. Nei sotterranei, infine, trovavano posto i magazzini, la dispensa, la cantina, la ghiacciaia e la cucina; quest’ultima, in particolare, si è ben conservata e merita una visita: situata accanto al pozzo dell’acqua, vi troneggia un monumentale camino e alcuni fornelli in muratura.

Anticamente, dal locale adibito a cucina si poteva accedere al refettorio, attualmente utilizzato per altre destinazioni urbane.
E’ possibile inoltre, visitare la ghiacciaia ancora molto ben conservata scendendo le scale dall’atrio dell’ingresso dell’attuale Palazzo Comunale.
La cucina è periodicamente utilizzata per scopi didattici dalle scolaresche di Breme e dei paesi limitrofi.

 

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Storia del Comune

La storia del Comune di Breme è ricca di pregi artistici e culturali, accumulati nel tempo. Le origini dell'insediamento si perdono nel tempo sino all'antichità.

L'età antica

È possibile che sul luogo in cui sorse Breme vi fosse un insediamento fin da tempi antichissimi: la stessa posizione, su di un dosso alla confluenza tra Po e Sesia, ne fa un sito ideale, al riparo dalle inondazioni e facilmente difendibile da uomini e animali. Non dimentichiamo che la Lomellina, come del resto gran parte della pianura padana, oggi così fertile e così intensamente coltivata, era nell’antichità un alternarsi di foreste e paludi, infestata da lupi e altri animali selvatici, in cui gli insediamenti umani erano rari e assai distanti gli uni dagli altri.
Diversi ritrovamenti attestano che il luogo era sicuramente abitato in epoca preromana e romana: alcune monete, di cui si hanno notizie indirette, sembrerebbero appartenere al tipo della cosiddetta «dracma padana» e quindi riconducibili ad un ambito celtico; notevole poi un frammento di Stele funeraria, (vedi foto) di epoca romana, venuto alla luce nel corso di scavi per lavori stradali. Altre iscrizioni, sono state segnalate dal Mommsen nel suo Corpus delle iscrizioni latine: due frammenti incastonati nel muro della chiesa e una stele dedicata a una «Valeria Dyonisia». Inoltre le quattro colonne della cripta, una delle quali di marmo, potrebbero provenire da Lomello, da qualche costruzione antica.


Il medioevo

La prima menzione di Breme in un documento ufficiale si ha nel 929: un diploma del re Ugo, datato a Pavia il 24 luglio di quell’anno, conferma le donazioni fatte dal marchese Adalberto d’Ivrea ai monaci dell’Abbazia di Novalesa, tra le quali le «corti» di Breme e di Pollicino.
Nello stesso anno iniziò la costruzione dell’abbazia per opera dei frati benedettini.
Dell’abbazia parleremo più diffusamente nel capitolo ad essa dedicato; per ora è sufficiente affermare che dal punto di vista giurisdizionale, l’abbazia di Breme fu un’abbazia «libera», cioè soggetta unicamente al Papa e all’Imperatore.

Le vicende politiche di Breme narrano che nel 1164 il suo territorio fu concesso da Federico Barbarossa al marchese di Monferrato Guglielmo V e che fu assediata e presa dai Visconti nel 1306; da allora seguì le vicende del ducato di Milano, fino a quando passò ai Savoia, nel 1713, in seguito alla pace di Utrecht. Nel XVI sec. l’imperatore Carlo V la eresse in marca, investendone il suo cancelliere Mercurino Arborio di Gattinara, il quale trasmise ai suoi discendenti il titolo di «marchese di Breme» (uno degli ultimi, e certo il più famoso, a portare questo titolo fu Ludovico di Breme, lo scrittore romantico amico del Manzoni e fondatore della rivista Il Conciliatore).
 

L'età moderna

Le vicende di Breme tornano ad essere movimentate agli inizi del XVII secolo, quando si trova ad essere coinvolta in quella lunga e sanguinosa guerra conosciuta nei libri di storia come la «Guerra dei Trent’anni», e in particolare a quella fase della guerra che vedeva opposti francesi e spagnoli negli anni immediatamente successivi all’assedio di Casale (quello, per intenderci, di cui parla anche il Manzoni nei Promessi Sposi). A questo periodo risale la costruzione di una fortezza che inglobò, snaturandolo, il fabbricato dell’abbazia.

Nel 1635 le truppe della coalizione tra Francia, ducato di Savoia e ducato di Modena penetrarono in Lomellina e occuparono alcune piazzeforti lungo Po e Sesia, tra cui Breme. Qui esisteva già da tempo un «castello»: lo troviamo nominato nella Cronaca di Novalesa e in alcuni documenti medievali. E’ probabile che questo «castello» sia da identificare con l’edificio situato alle spalle della chiesa parrocchiale, caratterizzato da una bella finestra ogivale in laterizio e da un motivo ornamentale in mattoni. Questo edificio, comunemente denominato «il castello», è oggi ristrutturato e adibito ad abitazione privata.

Vista l’importanza del luogo dal punto di vista strategico, ne fu decisa la fortificazione. Il progetto della fortezza fu presentato al duca Vittorio Amedeo I di Savoia il 25 novembre 1635 dall’ingegnere Bailera; a pianta pentagonale, aveva due porte d’accesso: una a sud, rivolta verso il Po, l’altra a nord, in direzione di Valle. Chi sofferse maggiormente di questo progetto fu il monastero, inglobato nelle mura di fortificazione, con la chiesa abbaziale ridotta a magazzino per le munizioni.

Meno di tre anni dopo, l’11 marzo 1638, le truppe spagnole guidate dal governatore di Milano Leganez, vi posero l’assedio e in capo a quindici giorni la piazza cedeva: non tanto per l’inefficacia delle fortificazioni, quanto piuttosto per l’imperizia e, si disse, per le speculazioni del governatore, il capitano Mongaillard, accusato di lucrare sugli approvvigionamenti, che fu condannato e giustiziato per tradimento poco dopo la sua resa.
Nel 1646 il governo spagnolo decise l’abbattimento della fortezza, troppo lontana dalle altre e che per questo necessitava di una guarnigione più numerosa: troppo costosa da mantenere, dunque, ma anche troppo pericolosa se fosse caduta in mano nemica. Di questa fortezza, che avrebbe dovuto essere imprendibile e che non resse a quindici giorni di assedio, non rimane più nulla; le uniche tracce superstiti le troviamo nella toponomastica: Via Mezzaluna, via Cannoniera, Piazza d’armi, Trincea, vicolo Corridore, cascina Rocca, cascina Rocchetta, Fortino, Muraglione.
Del periodo spagnolo rimangono tuttavia un paio di edifici: uno è il cosiddetto «Corpo di Guardia», cioè il portico sulla piazza principale, nel cui pilastro centrale è murata una lapide con inciso lo stemma di Breme e la legenda «Comunitas Bremide»; l’altro edificio è la casa all’angolo tra Via Abazia S. Pietro e via Carabinieri d’Italia, ritenuta l’abitazione del governatore del forte, con bei finestroni in cotto, su un muro della quale sono affiorati due stemmi affrescati.

 
 
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